#LaSTItaly. Il Made in Italy visto dagli italiani? Elegante ma poco innovativo


Osservatori - lunedì 31 Ottobre, 2016

II «Made in Italy» rappresenta una cifra fondamentale per la nostra economia. E il nostro biglietto da visita che fa riconoscere e apprezzare i prodotti italiani nel mondo. Negli anni del boom economico il cinema è stato un volano fondamentale per affermare quello che oggi definiamo un brand, un marchio che racchiude elementi materiali e immateriali: la qualità e lo stile di vita, assieme ad alcuni prodotti dell’epoca. Ma è negli anni recenti che gli studi economici hanno dato maggiore (e corretta) enfasi al valore dei settori che più di altri contrassegnano il Made in Italy. Sono le imprese delle «4A»: abbigliamento, arredamento, automotive e alimentare. Su circa 5 mila beni commerciati nel mondo l’Italia detiene la leadership su circa mille, seconda alla Germania. E grazie alla capacità di esportare queste produzioni che l’economia ha potuto limitare i danni di una recessione lunga e non ancora conclusa, a causa di una domanda interna che stenta a riprendersi. La qualità che distingue i prodotti italiani è ammirata e ricercata dalle schiere di ceti medi che stanno crescendo nei Paesi di recente sviluppo, così come nelle altre nazioni.

Monique Lhuillier FW 2106

La Stampa p. 34, 31 ottobre 2016

Produzioni tailor made

A ben vedere, quello che definiamo Made in Italy ha già riassunto in sé i fattori che – all’interno dei processi di globalizzazione – sono oggi trainanti per affermarsi nella competizione internazionale: produzioni «tailor made», a misura del cliente, personalizzate; flessibilità; qualità dei materiali utilizzati; design, estetica, cultura; professionalità. Dunque, il Made in Italy, con le sue caratteristiche, incrocia positivamente le richieste di un mercato affluente e in aumento su scala globale. Non è un caso se assistiamo al fenomeno dell’italian sounding ovvero di imprese straniere che utilizzano richiami ai prodotti italiani per conquistare fette di mercato, sottraendole proditoriamente a quelle titolate. Così come non è accidentale se il governo Renzi nel 2015 ha avviato un piano per la promozione straordinaria del Made in Italy e l’attrazione degli investimenti in Italia. Perché per affermarsi in un mercato sempre più affollato è necessario distinguersi. E ciò che permette di farsi riconoscere sono gli aspetti immateriali, le dimensioni evocative: ciò che comunica un’identità, dei valori, uno stile.

II senso dell’estetica
La ricerca (Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per «La Stampa») ha sondato in che misura i tratti tipici del Made in Italy siano avvertiti dalla popolazione, quali e quanto contribuiscano a definirlo. E, quindi, a delinearci. Rispetto all’elenco di dimensioni proposte, due sono quelle che polarizzano, nell’immaginario collettivo, il nostro «Made in»: la «creatività» (83,2%) e l’«estetica, bellezza» (81,5%). Da un lato, l’inventiva, la capacità di individuare soluzioni nuove, l’abilità nel sapersi districare costituiscono i tratti principali non solo per il mondo della produzione, ma pure nel modo di agire quotidiano di larga parte della popolazione. Dall’altro lato, il gusto, l’attenzione al bello, agli aspetti esteriori sono gli ingredienti cresciuti nella nostra attenzione nei decenni recenti (anche se non ancora totalmente diffusi) che si manifestano negli stili di vita, come nella gestione delle città. Più distaccati nella classifica, benché condivisi, sono altre due forme: l’idea di «qualità» (64,0%) e la «cultura» (51,4%). Se la prima dimensione evoca e si riallaccia alle precedenti dell’estetica e della bellezza, evidenziando come nel nostro Paese vi sia un’attenzione alla qualità della vita che non ha molti eguali; la seconda rinvia alle nostre tradizioni, al patrimonio culturale e che ha molteplici declinazioni. Diversa, invece, è la visione che la popolazione ha di altri aspetti che si attribuiscono generalmente al Made in Italy. Il «vivere bene» (47,3%) e la «passione» (46,0%) non superano la soglia del 50% dei consensi, probabile ricaduta del clima di difficoltà economica e di incertezza che pervade il nostro Paese da diverso tempo. Ma sono le ultime due dimensioni della classifica a dover far riflettere maggiormente: l’«innovazione» (21,1%) e la «tecnologia» (19,9%) non sono percepite come elementi tipici del nostro Dna. Non sono cioè riconosciuti all’interno del perimetro del Made in Italy e, per riverbero, anche del nostro Paese dal punto di vista produttivo.

Tra realtà e percezione
Sommando i diversi tratti proposti al fine di determinare l’esistenza nella percezione della popolazione di un Made in Italy, scaturiscono tre gruppi. Due hanno un peso quasi omogeneo e vedono coesistere quanti sono «Made In-certi» (48,0%), ovvero ritengono che solo una parte delle dimensioni proposte aiuti a prefigurare dei tratti distintivi; con i sostenitori del «Made in Italy» (45,9%), i quali vi attribuiscono la parte maggioritaria fra quelli elencati. Fra i primi an *** II «Made in» degli italiani (%) Forte: Comrrt rity Meoia Research Intesa Sanpaob per La Stampa. 2016 (r. casi: 1.997) I TOTALE No «Made» «Made-in» in-certo noveriamo in particolare i maschi, gli imprenditori e i dirigenti. Fra i secondi prevalgono la componente femminile e le generazioni più giovani, gli studenti e chi risiede nel Mezzogiorno. Marginale è, infine, la quota dei più critici, chi ritiene non esista un vero e proprio Made in Italy (6,1%). Alla fine, emerge una sorta di dissonanza fra la realtà e la percezione, fra il «Made in Italy» fatto di prodotti che viaggiano sui mercati internazionali e il «Made in» che ci definisce: è il brand del Paese, un biglietto da visita in chiaroscuro. È la nostra identità ancora da completare nella sua costruzione.

Daniele Marini

Nota metodologica
Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per La Stampa, realizza l’Indagine LaST (Laboratorio sulla Società e il Territorio) che si è svolta a livello nazionale dal 22 marzo al 4 aprile 2016 su un campione rappresentativo della popolazione residente in Italia, con età superiore ai 18 anni. Gli aspetti metodologici e la rilevazione sono stati curati dalla società Quantitas. I rispondenti totali sono stati 1.997 (su 13.287 contatti). L’analisi dei dati è stata riproporzionata sulla base del genere, del territorio, delle classi d’età, della condizione professionale e del titolo di studio. Il margine di errore è pari a +/-2,2%. La rilevazione è avvenuta con una visual survey attraverso i principali social network e con un campione casuale raggiungibile con i sistemi CAWI e CATI. Documento completo su www.agcom.it e www.communitymediaresearch.it.