La spinosa questione dei flussi migratori
Sondaggi - lunedì 3 Febbraio, 2014
Ci sono pratiche che rinviamo di esaminare perché complicate da risolvere o sopraggiungono altre priorità. Poste in fondo alla pila dei documenti, tuttavia periodicamente, e con non poco fastidio, rispuntano, ritornano al centro della nostra attenzione. Più perché qualche evento le ripropone, che per scelta meditata. Così è per il fenomeno migratorio nel nostro Paese. Una questione spinosa e complicata, che tendiamo ad affrontare quando diventa un’emergenza più che in modo progettuale: gli sbarchi lungo le nostre coste, i cori razzisti negli stadi, gli attacchi nei confronti del Ministro Cécile Kyenge. Abbiamo difficoltà a mettere a fuoco il fenomeno migratorio in modo pragmatico, cogliendone sia gli aspetti positivi, sia quelli problematici: di conseguenza, il discorso pubblico e politico in Italia è segnato fortemente da un carattere ideologico. Eppure non stiamo più parlando di una questione nuova. I flussi migratori in modo consistente e costante prendono avvio negli anni ’80, più di 30 anni fa. Non solo per la spinta ad emigrare delle popolazioni da aree povere del mondo, ma per la crescita economica dell’Italia in quegli anni e, in particolare, per la spirale avviata dal nostro calo demografico. Da alcuni anni, com’è noto, non conosciamo crescita economica, ma il calo demografico non si è fermato. Di qui, una presenza di migranti che comunque è in crescita. Nel 2008 gli stranieri regolari residenti erano il 4,5% degli italiani, nel 2013 hanno superato la soglia dei 4 milioni (7,4%). Guardando al futuro prossimo (2020, fra soli 6 anni), l’Istat stima che tali presenze saranno 7 milioni (11,4%). La loro provenienza è da circa 167 Paesi. La nostra comunità è già un caleidoscopio di nazionalità, ma sembra che non vogliamo vederla e, soprattutto, ammetterla. Siamo un melting pot inconsapevole. È evidente che non possiamo continuare a far finta di nulla pensando di chiudere i nostri confini o riponendo nelle sole espulsioni dei clandestini la soluzione dei problemi. Tuttavia, su questo argomento esistono due livelli distinti e distanti fra loro. Da un lato, le forme di inte(g)razione sperimentate sui territori, pur faticose e complicate, che hanno fatto compiere comunque significativi passi avanti su questi versanti: all’interno delle scuole, nello sport, nelle parrocchie, i matrimoni misti, gli anziani con le badanti. Forme di micro-integrazione che generano momenti di reciproca conoscenza e aiutano la convivenza. Dall’altro, nel discorso pubblico e in particolare politico assistiamo a una regressione del linguaggio, come nel caso di alcuni dei nuovi esponenti leghisti o di espressioni a dir poco “colorite” enfatizzate dai mezzi comunicazione. Così che appare un’Italia venata di orientamenti contrari ai migranti, quando non di razzismo o di xenofobia.