Indagine LaST: come cambiano il lavoro e il sindacato


Osservatori - lunedì 1 Maggio, 2017

Il mondo del lavoro diventa progressivamente un universo di galassie professionali. La diffusione di sempre nuove tecnologie e il dipanarsi della quarta rivoluzione industriale se sicuramente rendono obsoleti alcuni lavori, nello stesso tempo aprono orizzonti alla nascita di nuovi mestieri, con competenze diverse dalle precedenti. Come in una sorta di “big bang”, stiamo assistendo – quasi giornalmente – a un’espansione dell’universo lavorativo e al sorgere di nuove attività. Le conseguenze di simili fenomeni investono una molteplicità di ambiti e aprono nuove sfide nella sfera dei diritti e dei doveri, delle imprese e dei lavoratori, delle tutele e della rappresentanza. Ecco, la rappresentanza. È diventato un mestiere complicato, per tutte le forme organizzate degli interessi, sia chiaro: dalle associazioni imprenditoriali, a quelle professionali e istituzionali, per non dire dei partiti. Ma le organizzazioni dei lavoratori, fra tutte, hanno una lunga storia alle spalle e anch’esse conoscono un’impasse. Che deriva da alcuni ordini di motivi.

Il primo risiede proprio nella progressiva articolazione dei lavori. Se in precedenza la “classe operaia” della fabbrica costituiva l’elemento identitario (e culturale), il riferimento obbligato sotto il profilo contrattuale, oggi i lavoratori sono “fuori dalla classe”. Gli operai rappresentano una minoranza e, pure al loro interno, sono presenti un mix di figure. Altri mestieri e professioni sono cresciuti. Il lavoro si fa diffuso nei luoghi e nelle forme, con orari asincroni e una crescente difficoltà a distinguere quello manuale da quello intellettuale. Le organizzazioni sindacali faticano a raggiungerli e a rappresentarli. Di qui, la confederalità e il tradizionale solidarismo fra lavoratori diventa più complicato e complesso da gestire, perché gli interessi si moltiplicano. Così prendono vita organizzazioni specifiche che tutelano particolari gruppi di lavoratori, proliferando e diluendo la rappresentanza.

C’è poi un secondo elemento da considerare: la rappresentanza si realizza con almeno un interlocutore (imprenditoriale, politico). Ma se anche questi è in una condizione di debolezza, il ruolo di portatore d’interessi entra reciprocamente in difficoltà. Gli esecutivi in passato (Berlusconi prima, Renzi poi) hanno ricercato una disintermediazione nei confronti dei “corpi intermedi”, aggirandoli e inseguendo una relazione diretta con i mondi di riferimento. I risultati di una simile azione, dopo un periodo di contrapposizioni, si sono conclusi con un ritorno sui propri passi. In realtà, più per demerito della politica che per merito delle organizzazioni sindacali, spesso ancorate a posizioni difensive. Ma all’interno di questi processi, un’altra dimensione contribuisce a complicare il mestiere della rappresentanza: i cambiamenti nelle culture del lavoro. Il peso crescente attribuito alla soggettività e alle relazioni sul lavoro, l’identificazione con l’impresa, l’idea di un lavoro inteso come un percorso di crescita professionale, la valorizzazione del merito: sono tutti aspetti divenuti largamente maggioritari negli orientamenti dei lavoratori, ma di cui le organizzazioni sindacali faticano a comprendere e, soprattutto, a tradurre concretamente nelle tutele, nella contrattazione. Infine, ma non per importanza, la forza della rappresentanza si nutre della reputazione e della stima che un’organizzazione gode al di fuori della propria platea di riferimento. Proprio questo è l’oggetto della ricerca di Community Media Research: come sono mutate nel tempo le opinioni della popolazione e dei lavoratori verso le organizzazioni sindacali? Innanzitutto, osserviamo una divergenza fra quanto espresso dalla popolazione in generale, da un lato, e i lavoratori, dall’altro, sul ruolo del sindacato in Italia. Nell’immaginario collettivo aumenta il peso assegnato al sindacato nella sua funzione di tutela e nel concorrere allo sviluppo del paese. Ben il 40,0% ritiene che in Italia le cose andrebbero peggio se i sindacati non ci fossero (era il 33,1% nel 2015), mentre chi ne farebbe volentieri a meno rimane al di sotto del 30% (27,7% nel 2015). Non c’è dubbio che la contrapposizione al Jobs Act, la battaglia sui voucher e l’attivismo referendario abbiano pagato in termini di visibilità. Tuttavia, l’esito non è analogo se concentriamo l’attenzione sui lavoratori, ovvero la platea di riferimento dei sindacati. Sul finire degli anni ’90 del secolo scorso, la maggioranza fra i dipendenti (54,5% nel 1998) assegnava un ruolo positivo. Progressivamente però questo parterre si riduce fino ad assestarsi oggi al 43,3%. Per contro, salgono al 30,5% quanti ritengono che le cose in Italia andrebbero meglio senza i sindacati (era il 13,1% nel 1998), mentre diminuisce l’area dell’indifferenza (26,2%, era il 32,4% nel 1998) verso queste organizzazioni. Questi esiti sono il frutto dell’opinione che i sindacati non siano in grado di tutelare gli interessi dei lavoratori (66,9%, era il 54,5% nel 2015). I motivi di quest’incapacità rimangono sostanzialmente identici nel tempo. Da un lato, i sindacati sono percepiti al pari dei partiti (47,1%), dall’altro non si ritiene siano in grado di comprendere le attuali trasformazioni del mondo del lavoro (35,3%).

Simili esiti confermano, una volta di più, la necessità di una rivisitazione soprattutto culturale della rappresentanza del mondo del lavoro. Le esperienze, a ben vedere, non mancano. Il “rinnovamento” contrattuale di Federmeccanica e quello di CNA siglati assieme a CGIL-CISL-UIL sono la dimostrazione di come sia possibile innovare a partire da nuove (condi)visioni del lavoro. Testimoniano che – seppure con fatica – un sindacato (dei lavoratori, così come degli imprenditori) può re-interpretare il proprio ruolo. Perché nell’epoca delle galassie dei lavori, c’è bisogno di qualcuno in grado di offrire un universo comune.

La Stampa, 1 Maggio 2017

Daniele Marini

Nota metodologica

Community Media Research realizza l’Indagine LaST (Laboratorio sulla Società e il Territorio) che si è svolta a livello nazionale dal 6 al 12 aprile 2015 su un campione rappresentativo della popolazione residente in Italia, con età superiore ai 18 anni. Gli aspetti metodologici e la rilevazione sono stati curati dalla società specializzata Questlab. I rispondenti totali sono stati 1.655 (su 14.103 contatti). L’analisi dei dati è stata riproporzionata sulla base del genere, del territorio, delle classi d’età, della condizione professionale e del titolo di studio. Il margine di errore è pari a +/-2,4%. La rilevazione è avvenuta con una visual survey attraverso i principali social network e con un campione casuale raggiungibile con i sistemi CAWI e CATI. Documento completo su www.agcom.it e www.communitymediaresearch.it